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Trento, 1 luglio 2014
BOCCIARE? SEMPRE MEGLIO RECUPERARE
di Lucia Coppola, insegnate
dal Trentino di lunedì 1 luglio 2014

Qualche riflessione a seguito del dibattito di questi giorni sull'eterno dilemma tra il bocciare, il promuovere, il rimandare, inteso ora come possibilità data agli studenti di recuperare i debiti formativi relativi alle materie nelle quali sono state evidenziate carenze significative.

Va detto innanzitutto, evidentemente, che ogni bocciatura è un caso a sé e che presenta importanti differenze in ogni ordine di scuola. C'è chi la invoca anche per le elementari, in un'ottica che trovo quanto meno arretrata.

Ciò se paragonata al contesto di studi e approfondimenti, di teoria e pratica didattica che ne consigliano un uso quanto meno eccezionale e, nella gran parte dei casi, la considerano inutile e dannosa. Ho bocciato un unico bambino nella mia lunga carriera scolastica e ne serbo tuttora un ricordo tristissimo.

Lo feci, all'epoca, senza esserne convinta e arrendendomi alle pressioni dei colleghi di classe, forse di una psico-pedagogista. Lo bocciai malvolentieri e con infiniti dubbi che mi lasciarono l'amaro in bocca e confermarono nel tempo la mia/nostra incapacità di incidere a fondo sulle carenza cognitive, emozionali e affettive di quel bambino, a cui non avevamo dato una chance di maturazione.

Dunque, una sconfitta personale e dell'istituzione scolastica. Gli esiti del percorso di studi che ne seguì furono tragici: il bambino finì in una classe dove si sentì ulteriormente inadeguato, non migliorò assolutamente, arretrò rispetto alle seppur piccole conquiste fatte e finì, credo, con l'odiare la scuola. Lo rividi l'anno successivo in fondo alla fila, con gli occhi tristi e l'espressione sconfitta di chi è stato emarginato ed escluso da quella che, a ragione, riteneva fosse la “sua” classe. Quel gruppo di compagni e compagne che lui, in seconda, si ostinava ancora a chiamare “amico” e “amica” quasi fosse lì di passaggio e per sbaglio, ma che amava. Durante le ricreazioni li cercava, li abbracciava e faceva di tutto per strusciarsi vicino a me come un gattino in cerca di protezione. Ho sempre considerato quella bocciatura come un neo nella mia carriera scolastica e feci di tutto negli anni che seguirono per far sì che nessuno dei miei bambini e delle mie bambine fosse defraudato del diritto a stare bene e a essere felice a scuola.

Non più tardi di ieri mi è capitato di rivedere una ex alunna che sta compiendo un percorso di studi di valore e ha appena vinto un dottorato. Le sue parole, a fronte dei miei complimenti, sono state le stesse che mi sento dire da tutti i miei numerosi ex alunni: “Maestra, quello è stato il periodo più bello della mia vita!”. E allora mi capita di chiedermi perché, sovente, la scuola secondaria sia di primo che di secondo grado, e nonostante ottimi e preparati insegnanti, rappresenti ancora per tante e tanti ragazzi un momento di difficoltà, qualche volta di vera sofferenza. O quanto meno qualcosa che non si ricorda con tutta questa soddisfazione, nostalgia, piacere, rimpianto. Amiche e amici del cuore a parte.

Penso che la scuola dovrebbe porsi, in via prioritaria, e insieme ad alunni e famiglie, il compito di valutare le ragioni dell'insuccesso e di capire a cosa è dovuta l'incuria, la disattenzione, la poca voglia di studiare, la scarsa attitudine all'impegno, l'incapacità di fare un piano di studi e di attenervisi, l'assenza di un metodo di studio. Perché, alla fine, è compito della scuola “garantire il successo formativo” e le competenze o abilità che lo determinano dovrebbero riguardare in prima persona proprio gli insegnanti, oltre alla scuola nel suo insieme.

Chi viene bocciato, normalmente, proviene dalle classi sociali meno abbienti perché, come diceva Althusser “la scuola è un imbuto che prepara la piramide sociale”. E dunque il problema di un reale recupero si pone forte per una scuola pubblica che voglia essere di qualità e rappresenti anche un riscatto sociale e culturale.

La metodologia che si dovrebbe attuare, ponendo al centro del recupero proprio lo studente, non attenua né la serietà né l’autorevolezza delle istituzioni scolastiche, ed è tanto più efficace se, a fronte dell’accertamento di una o più lacune, fa scattare iniziative di maggior valore educativo, spalmate su un tempo più lungo, con organizzazione di corsi di recupero anche con l'aiuto di compagni e compagne più sicuri, e quindi valutazione finale di come l’interazione tra scuola e alunno è avvenuta e dei risultati che ha prodotto.

Si tratta dunque di interventi educativi più approfonditi che necessitano, obbligatoriamente e non discrezionalmente, di azioni precise nella direzione di un effettivo avanzamento che dovrebbe scongiurare, anche in futuro, il ricorso alla bocciatura.

C'è chi afferma senza mezzi termini che le bocciature fanno bene ai ragazzi. Non sono di questo parere. Ci sono bocciature che su caratteri particolarmente combattivi non lasciano il segno ed anzi determinano levate d'orgoglio, ma nella gran parte dei casi, purtroppo, vengono vissute dai ragazzi e dalle famiglie come brucianti sconfitte dalle quali è difficile risollevarsi. E allora spetta agli adulti, consapevoli del loro ruolo, aiutare, consigliare, indirizzare, far uscire le reali predisposizioni verso differenti tipologie di scuola, di studi e di indirizzi. Accompagnare le bocciature inevitabili con delicatezza, con umanità. Perché un'altra possibilità deve sempre essere consentita a tutti, soprattutto a chi si sta affacciando alla vita e magari da solo non ce la fa a capire quale può essere la strada da percorrere.

Qualcuno ha persino tirato in ballo le teorie di Don Milani e di Rodari, che peraltro si è posto, più che altro, come meraviglioso scrittore per l'infanzia e non come maitre a penser. Nessuno di loro, e di noi insegnanti che li hanno amati, ha mai messo in contrapposizione la “razionalità e la creatività”. Entrambi erano ben consapevoli che la vita non è un gioco, la loro era una cultura forte, completa, che si basava sulla conoscenza, sulle discipline e su teorie rigorose. Ma entrambi, proprio come tanti di noi, “bravi maestri”, avevano anche a cuore i sentimenti dei ragazzi e dei bambini, il loro sacrosanto diritto allo “star bene a scuola”, a essere educati, accettati, guidati e valorizzati. A crescere in un ambiente stimolante, ad avere insegnanti appassionati e competenti. A stare dentro una scuola che colmasse i gap legati alle classi sociali di provenienza e che garantisse mobilità sociale: “...oggi anche l'operaio vuole il figlio dottore”, cantava allora Ivan Della Mea.

Una scuola anti - autoritaria, plurale e attenta ai bisogni e alle necessità di tutti i suoi figli e figlie, di cui c'è ancora molto bisogno.

Lucia Coppola
Insegnante

 

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